Sulla linea dell’orizzonte acqua aria terra fuoco

SISSI ASLAN
SULLA LINEA DELL’ORIZZONTE ACQUA ARIA TERRA FUOCO

Ogni artista regala agli altri il suo già visto, le sue emozioni e gli stordimenti. Ogni opera può essere la sua perdizione, delle sue conoscenze e del cuore, e la nostra. Ogni opera è un tutto, individuo autonomo, appartenente a un preciso percorso unico che unisce sempre forme plurali senza pregiudizi meta-pittorici. Ogni singolarità apre il proprio Io e svela il mistero del gesto, che corrisponde al pensiero, al visto e conosciuto, alla mente e al cuore, appunto. L’arte, e non può essere diversamente, è struttura dell’anima e della vita di un artista.
Da un’idea concreta, vissuta ed elaborata a lungo, Mauro Magni va al sodo delle sue meditazioni sulla realtà condivisa con l’esterno. È un sogno, a volte una visione anche fuggevole. È il suo provare a comunicare, ché l’arte è sempre comunicazione in ogni sua declinazione, il suo sovrapporsi alle emozioni che si mostrano, e strutturano, attraverso le forme i colori i misteri. Pittura d’emozioni, la sua, che non è necessariamente quella quotidiana artefatta dalle contingenze ma da queste prende a piene mani l’idea che trasferisce sulla superficie con metodologie più vicine alla destrutturazione della forma che non alla sua costruzione evidente. Qui Magni oltrepassa la soglia! La soglia di un suo passato, per la verità lontano, affascinato da pratiche legate all’illustrazione e alla grafica che viaggiavano in parallelo con la pittura. È proprio in questo passato, trattato ed esercitato nella massima professionalità, che l’artista romano ha sviluppato la sua disciplina e meditato il suo superamento. Vale a dire che il suo percorso estetico–semiotico è sempre stato conformato a quell’idea di sincerità in pittura di ascendenza cézanniana che nulla ha a che fare con il realismo formale e narrativo. Naturalmente! Da lì Magni è arrivato, dopo lunga elaborazione e forte pre- sa d’atto, allo svolgimento di una prassi più consona al suo emotivo. Vale a dire, anche, che l’individuo artista ha bisogno di limiti autoimposti da oltrepassare. Per avere conferme, veri che, percorsi di crescita e ancora per misurare il proprio Io in rapporto alle proprie passioni e ai propri gesti. Parlo di gesto pittorico ed estetico. Parlo di euritmia e di armonia. Parlo di privato e di esclusivo. Credo che tutto questo faccia essere artista e Magni nello specifico, unicità, irripetibile quindi, anche nel riconoscimento di ascendenze formative precise, palesi o nascoste. Il nostro artista, oggi cinquantenne, ha studiato pittura con Edolo Masci e Marcello Avenali, maestri italiani del XX secolo, tra gli altri, ridisegnando le loro sintassi con autonomia e lecito distacco. Se guardiamo le opere più lontane di Mauro Magni ci accorgiamo che il suo legame passato con le curve, della forma e della linea, era fortemente costitutivo insieme alla presenza perseverante del colore. E ritorno con la memoria a opere che Magni dipingeva negli anni Novanta del Novecento nelle quali è palese la sua ricerca sulla forma-colore in intrecci e sovrapposizioni, stratificazioni e contaminazioni di linguaggi e materiali, geroglifici e reti di culture. Carte, cartoni, metalli, tavole i supporti, sabbie, polvere di marmo, oro, pigmenti naturali i materiali, collages e carte strappate la tecnica, ricreazione di un muro la superficie.
Tracce, la serie di opere della fine degli anni Novanta esplicitate come alfabeti globali, della nostra storia, etruschi, e del nostro presente, africani e giapponesi. Quasi fossero attraversamenti necessitati da una volontà espressiva che, giorno dopo giorno, si chiarifica perdendo quell’ibridarsi degli spazi pittorici che lo hanno portato all’evocativo più che al non detto. Era paura di raccontarsi? Forse. È certo che gli interessi poliedrici di Magni sono alla base di una fisionomia che oggi si fa comportamento costante dell’uomo e garbo e corporatura dell’artista. E non parlo certamente delle sue frequenti passate incursioni in spazi artistici altri, già accennati. Parlo di ricerche sulla forma del segno, sulla struttura grafica dello spazio e, principalmente, parlo di simbologie che provengono a pieno diritto dai suoi studi sulla diversità espressiva di altri mondi, altri popoli, altre culture, altre memorie, altre suggestioni.
I soggetti qui sono i viaggi, immaginati e vissuti, la loro incisività comunicativa. Stati Uniti Africa India poi Cuba Cina. Egli sembra essere in continua sperimentazione, di sé e dell’altro da sé, sembra quasi voglia sempre misurarsi con il nuovo e con il passato contemporaneamente.
Alcune opere dei primi Duemila segnano con metodo antiquario, nel senso di ricerca archeologica umanistico-rinascimentale, il traghettamento dell’artista romano da una forma astratto-simbolica, quella di Tracce, a una più concreta cor- rispondenza con il qui e ora. Soggetto di tutto ciò è ancora il viaggio. La città è Roma, la sua urbanizzazione coatta, la sovrapposizione e la sedimentazione di monumenti antichi schiacciati dalla violenza dell’insignificante, il moderno e il contemporaneo che diventano, nel breve click delle palpebre, archeologia industriale. Ecco allora Periferie (pastelli a olio, graffito, collage, su lamiere di zinco e su tela), paesaggi urbani che illustrano un non-luogo.
È una Roma in diaporama dove l’iconografia cittadina – Tiburtino, Centocelle, Ostiense – si riduce ad un indistinto e immaginario agglomerato di edifici. Il viaggio contemporaneo fatto e vissuto attraverso luoghi e scene metabolizzati è pur sempre il viaggio artistico, genere tra i più interessanti e più sviluppati per oltre quattro secoli. Ideale nato dallo studio dei monumenti antichi, praticato per necessità di approfondimento, è divenuto simbolo e memoria, provocazione della fantasia e della nostalgia tra idea e natura. E viene spontaneo ritornare al concetto di metafora e allegoria. Lo stesso Cesare Ripa, nel Proemio alla sua Iconologia indica i criteri e le intenzioni – Le Imagini fatte per significare una diversa cosa da quella, che si vede con l’occhio, non hanno altra più certa ne più universale regola, che l’imitatione delle memorie.
In realtà credo che la prassi di Magni sia rimasta molto legata alla conoscenza e alla curiosità intellettuale che diventano attualità propositiva e attuazione della sua interiorità. Ne sono prova alcune opere che usano tragitti, linee, forme, colori, super ci che sono ancora virtualmente memoria della sua antica personale vocazione per gli apparati illustrativi formali e cromatici. Opere pittorico-grafiche su supporti di metallo come Sogno, Sera, Attesa, Dubbio 1 e Dubbio 2 (tecniche miste su ferro e alluminio, 2008) si fanno intuire di là del dato specifico, nudi di donna, per richiamare il senso dell’evocazione poetica e suggestiva della celebrazione fortissima che tali corpi coniugano.
E diventano, quindi, veri paesaggi dei sensi, soprattutto le prime tre opere. E non per l’erotismo implicito dei gesti, l’ammiccamento delle posture, ampiamente presenti in questi neri corpi di donna, bensì per la loro apologia, tra il detto e il non detto, di forme quasi monocrome che arrivano alla sintesi di quel corpopaesaggio che, in memoria del suo maestro Masci nei dipinti dei Sessanta/Settanta, Magni reitera in nuovi oggetti del pensiero. Fin troppo ovvio ricordare che un corpo nudo e disteso di donna è, più che mai, un paesaggio integrato e perfezionato da quel suo inserimento, spesso solo suggerito, in un altrove che perde totalmente i connotati concreti del dato iconografico per ritornare alle suggestioni della naturalità embrionale e quasi primitiva della percezione intellettuale e visiva. Tale percezione ci porta, condotti per mano dall’artista stesso, a sognare e vedere quei paesaggi notturni appena schiariti da una luna solo immaginata. La pelle non è dipinta ma è colore stesso del supporto, il ferro, trattato a ruggine con acido.
Non è un caso, d’altronde, che il dipinto Sera, sia nato dopo la morte della zia Emma (gemella della madre), figura dichiaratamente importante nel percorso di crescita e di elaborazione degli affetti. Il quadro nasce dalle suggestioni che hanno portato l’artista all’elaborazione del lutto e alla sua rappresentazione apparentemente conclusa e argomentata in forme così assolute. Corponudodidonna addormentato sulla sommità del mondo. Corpo nudo del colore della ruggine che vela inesorabilmente la superficie di ferro e la scava come l’acido dell’acquaforte morde una lastra di rame. Lì la morsura toglie materia ma dà vita a qualcosa di nuovo e di assolutamente originale. Qui la ruggine toglie materia, vive autonomamente, e dà vita a qualcosa di nuovo e di assolutamente originale, un quadro che è un corpopaesaggio. Non rappresenta più se stesso ma una realtà altra, esclusivamente intuita. Delimitato, in alto, da un contorno bianco graffito che si raccorda al lenzuolo/monte diventandone termine e cesura in una contemporanea visione di interno ed esterno, di tempo e di spazio, un non-luogo che si contrappone a tutte le dimensioni del pensiero.
Semplice nella sua struttura gra ca Sera si avvale dell’evocazione e della me- moria. E una poesia di Else Lasker-Schüler – Improvvisamente dovevo cantare e non sapevo il perché. Ma la sera piangevo amaramente. Veniva da tutte le cose un dolore che è andato a posarsi su di me – chiude nel cielo della notte e ferma ogni divagazione sulla diversità del dato con quelle lettere, incorniciate di bianco, colore del lutto, che pronunciano il nome Emma come preciso paratesto.
Ancora una volta si deve parlare di percezione e di suggestione, la realtà è muta- ta – scrive Michel Meyer in “Piccola meta sica della differenza” – e diviene ciò che non è più; la sua metaforizzazione non è percepita come tale ma è scambiata per la realtà stessa.1 Parlo di metafora, quindi, di allegoria, di diversità percettiva, tutte categorie che respingono il realismo e diventano categorie del pensiero. È ciò di cui si tratta, in quanto si tratta di qualcosa ma per parlare di altro (ancora Meyer).2 È, quindi, la sospensione dell’incredulità momentanea o sospensione del dubbio, la willing suspension of disbelief di Coleridge. Chi guarda un’opera in relazione alla propria emotività interrompe la sua capacità cognitiva, comprensiva e critica, per affrontare un sistema che usa solo codici di fantasia che non ci appartengono razionalmente. Io so, io conosco, io riconosco ma ciò che io vedo e io percepisco è altro. È la verità del suggerito, lo specchio dell’alterità, è dire qualcosa per parlar d’altro!
L’allegoria del corpo che si fa paesaggio, descritta da Magni, si sovrappone all’intero racconto. È parente anche dell’oracolo, del mito e della favola, – scrive Marc Fumaroli – che figurano, dissimulano e nascondono una verità profonda sotto un senso proprio apparentemente banale, fittizio o misterioso3. È un concetto, questo, molto vicino al saper accettare e cercare la diversità, al saper scorgere il simile (Poetica aristotelica). È lo specchio dell’alterità, di cui sopra, è la tutela della differenza, che sola ci fa riconoscere la norma.
Ogni individuo ha necessità dello specchio, considerato come altro da sé, confronto con gli altri, ri esso e correzione degli atti di presunzione. Ogni indi- viduo/artista lascia che la sua immagine si perpetui continuamente nelle sue opere, di verità e di metafore. Specchio appunto! Mauro Magni lavora per cicli, per tematiche, per super ci. Il suo specchio è composto di tutto ciò. Voglio dire che nella serialità di un’immagine o di un gesto è compreso il ri esso del suo creatore. E tale gesto, reiterato in tecniche, supporti e materiali, Magni lo trasforma in killeraggio dell’idea primaria, originale. Killeraggio, giusto per chiarire una riflessione audace, che attraversa un inizio di verità in assoluta condivisione con le metafore espresse dal suo pensiero e arriva, uccidendo la genitrice dell’idea iniziale, al codice che diventa parametro e sistema di un gesto pittorico, archetipico. Certo l’idea non sparisce, rimane come specchio dell’Io ma si fa consapevole e dimostrativa di quello stesso pensiero. La complessità caotica degli inizi diventa, dunque, paradigma della normalità. Dall’interno/opera all’esterno/opera! La serie, o se vogliamo chiamarla lista, diventa vertigine della lista di Umberto Eco, nell’impossibilità di controllare il caos. E Magni, da puro collezionista, rinnova un meccanismo di finzione, implicito nel far pittura – sospensione dell’incredulità momentanea – che viaggia, andata e ritorno, dalla pittura/tempo alla pittura/ specchio. Sono proprio questi due concetti, uniti a quello dell’artista/killer, che fanno dell’opera di Magni terreno fertile e aperto alla trasformazione radicale nell’immutabilità apparente dell’icona.
Oltre Corpopaesaggio c’è di più. Altri cicli seriali, di anni più recenti, come le Montagne, 2008–2011, i Ritratti, 2011-2012, e le ultime Torri, oggetto di ulteriori ricerche semantiche e sperimentazioni di nuove cromie, di ritorno consapevole ai suoi inizi grafici e ai collages, e di consapevole superamento di quegli inizi, ma anche di nuovi materiali come la terracotta a due e tre fuochi e il raku.
Montagne. Rocca Romana montagna sacra dell’uomo/pittore Magni è un luogo geografico. È il luogo per eccellenza, visto vissuto amato interiorizzato metabolizzato vomitato! Diventa categoria della visione e della percezione, diventa vertigine dell’illimitato, Fujiyama, Montagne Sainte-Victoire, Epifania della vita. Naturalmente Rocca Romana è una convenzione che si presenta con i suoi rituali e i suoi dubbi, quasi una coazione a ripetere, ossessiva e compulsiva. È il ventre dell’artista che si fa natura nell’accelerazione dei ritmi e delle conoscenze vecchie e nuove. Dal primo ritratto della rocca – vista dalla sua casa a Trevignano Romano – coniugato in trittico Magni passa alla trasgressione del sapere e del presente, trasgressione che si associa, ancora una volta attraverso l’approdo, alla capacità meditativa di comprensione della libertà. E le pennellate diventano, sempre più, coscienza dell’invisibile. Naturalmente il tragitto tra i corpopaesaggi e le montagne è brevissimo e rettilineo.
Magni, pare dirci, osserva il corpo di una donna con la stessa meraviglia con cui osserva un paesaggio! Un paesaggio è amore, è meraviglia, è spettacolo, qualcosa di potente e di bellissimo. Chi sporca il corpo di una donna sporca, allo stesso modo, un paesaggio speculando sia sulla natura sia sulle donne, e tutto questo è di una barbarie inaudita. Quando si parla con volgarità e prepotenza di una donna, del suo corpo, del suo essere persona, lui avverte lo stesso atteggia- mento di quando si violenta una collina o si fa una discarica. Così si uccide un paesaggio, si uccide la natura4.
Rocca Romana rappresenta dunque un passo consapevole e cercato verso un contatto con la natura, forza superiore e illimitata, ritorno necessario. È il ritorno alla pittura, l’immersione totale nel colore, nella forma prima razionale e controllata poi emotiva e gestuale. Non solo ritratto di un monte di là della finestra aperta ma anche autoritratto emozionale – come tutti i nostri Fujiyama e le nostre Montagne Sainte-Victoire – e quindi natura come guida, ritorno inevitabile a un Eden oltre il caos di questi nostri tempi foschi, verso la naturalità degli elementi, acqua aria terra fuoco. La forza e la potenza della rocca sono in contrapposizione con il caos creato dall’uomo. Non è soluzione o misura, è urgenza espressiva.
Rocca Romana (Io) è il ritratto, il primo, l’Io appunto. Quella struttura interiore che organizza, percepisce, gestisce, si relaziona e diventa cognizione propria e della realtà. Il paratesto cézanniano scritto in basso nell’immagine – Regardez cette Sainte-Victoire! Quel élan, quelle soif impérieuse du soleil! Et quelle mélancolie le soir quand toute cette pesanteur retombe – molto vicino emotivamente al brano poetico della Lasker-Schüler inserito nel cielo dell’opera Sera, indica il percorso, forse didascalico, che Magni persegue in questa sua prima montagna. Vale a dire che l’artista realizza un primo fotogramma dove realtà e fantasia creativa si connettono e si intersecano continuamente. È ancora ritratto di un dato di natura ma è già stravolgimento della visione, è ancora racconto ma muta in percezione metaforizzata. È, in ne, la strada che la coscienza percorre per arrivare al suo superamento e alla sintesi di forma/colore/suggestione. È la storia dell’istante.
Rossa (Es) è l’inconscio, l’incontrollabile, l’imponderabile, l’ignoto. È lo scambio tra la voce della natura e la voce dell’anima. È l’istante. È il rosso che coincide con l’erotismo e l’aggressività. È la continua lotta e sovrapposizione tra Eros e Thanatos. Se da una parte la rocca rossa è identificabile con il cuore e l’amore, la passione e la sensualità, la forza e la sicurezza, dall’altra c’è il fuoco, il sangue, l’azione. Qui già si perdono tutti i connotati della riconoscibilità oggettiva. L’io so, io conosco diventano io percepisco, io riconosco. Lo stravolgimento dell’immagine è declinato attraverso lo stravolgimento di visione e di modalità pittoriche che diventano metodiche di comportamento visionario. È allora che la sintassi di Rossa (Es) indica per Magni, senza ombra di dubbio, il passaggio alla gestualità del segno che è, ricordiamocelo continuamente, prosecuzione dell’idea creativa interiorizzata e meditata, poi scaraventata fuori di sé. In colature, in segni/colore a contrasto, in sovrapposizioni e sedimentazioni. Sembrano lingue di fuoco che circondano e ricoprono il triangolo della rocca. Da qui a Scura (Super-Io) si tratterà sempre più di sintesi del racconto, di memoria, di gesto. Le montagne come voglia di entrare nel colore, dichiara Magni.
Scura (Super-Io). Ecco, quindi, il blu/nero screziato, in colature, in linee a contrasto che segnano la struttura dell’oggetto lasciando, qua e là, squarci di luce lunare. Ben lungi dall’essere tranquillizzante, come l’uso del colore blu dovrebbe indicare, questa rocca scura è la visione degli inconsapevoli codici comportamentali. È il cammino dell’Io, la sua frantumazione e la sua modificazione attraverso modelli di conoscenza. È un’ipotesi di comportamento che si attua grazie a quei modelli esistenti fuori di noi. È il superamento/negazione dell’istante. La complessità caotica del gesto pittorico tramuta la diversità in codice che l’artista romano ricerca e conosce. Prassi ossessiva che usa il compiacimento per riflettere il proprio mondo nello specchio della percezione/creazione.
Magni controlla il suo spazio e gioca con gli stessi formati e la stessa rocca che si fa solare, vulcano, Monte d’Oro, Magma, Monte Negro, Golgota, Olimpo, Monte Avatar, Montegelato, Rosanera.
Magma, titolo quasi palindromo, acronimo dello stesso pittore, è la montagna ambiziosa che aspira a rappresentarle tutte, è la forma geometrica che muove all’infinito, è lo spazio della pittura e del non concluso, è il gesto che ferma e chiude il percorso. Piena di contrasti, questa montagna verderosso, in trasparenza, lascia intravedere la sua fragilità e la sua forza. Dal trittico iniziale, fase della conoscenza del reale no all’interiorizzazione della sua poetica, Magni arriva alla sintesi dei segni, delle forme e delle stesure grafiche. La sua sintassi opera quel dialogo/confronto necessario alla nuova struttura della logica dimostrativa. Il segno (linee e colature) diventa gesto controllato in autodisciplina cosciente, la forma (Rocca Romana) diventa geometria pura, la stesura (spazio compositivo, carte applicate e strappate – per la prima volta in Golgota ma in realtà già sperimentate in opere giovanili) diventa apparenza caotica, maschera e artificio, dimostrazione della finzione insita nell’atto creativo – Il poeta è un fingitore. Finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che davvero sente di Fernando Pessoa. La prassi, metodologia dell’espressione dal reale conosciuto al virtuale percepito, continua in nuove forme e nuovi temi.
Nelle Torri il nostro artista maschera, ancora una volta, lo stordimento del conoscere e del superare nella dimensione iniziale dell’oggetto e della narrazione.
Con ciò voglio dire che Magni segue un percorso di reiterazione ossessiva partendo, sempre, dalla rappresentazione naturale per concludere tale percorso seriale nella visionarietà. La grande tela Nella confusione di Migdal (2012)5 è solo l’inizio del cammino. E non solo di tale reiterazione ma, e soprattutto, della visceralità della visione via via sempre più dominante.
Migdal/Babel. La letteratura sulla torre è amplissima, dall’antichissimo testo sumero Enmerkar e il signore di Aratta al Libro dei Giubilei alla Genesi – Venite, facciamoci mattoni e cociamoli al fuoco. Venite, costruiamoci una città e una tor- re, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra6 – no alla letteratura ellenistico-romana per arrivare al XVI secolo con l’iconografia descritta da Pieter Bruegel il Vecchio nelle due tavole La grande torre e La piccola torre. In epoche più vicine ai nostri tempi mi vengono in mente due esempi mirabili, il primo ci è dato da Fritz Lang con la sua novella Torre di Babele in Metropolis, l’altro è José Saramago in Caino.
Laggiù in lontananza, giungendo davvero a proposito, sulla linea dell’orizzonte, si distingueva una torre altissima a forma di un cono tronco, cioè, una forma conica a cui avessero tagliato la parte superiore o che ancora non vi fosse stata messa. La distanza era grande, ma a caino, che aveva una vista eccellente, parve di vedere gente che si muoveva intorno all’edificio. …A mano a mano che si avvicinava, il rumore delle voci, dapprima tenue, andava via via crescendo no a trasformarsi in una vera e propria gazzarra. Sembrano dementi, pazzi completi, pensò caino. Sì, erano pazzi per la disperazione perché parlavano e non riuscivano a intendersi, come se fossero sordi e urlassero sempre più forte, inutilmente. …Imponente, maestosa, laggiù c’era la torre, sul lo dell’orizzonte, anche se incompiuta, pareva in grado di s dare i secoli e i millenni, ma, tutt’a un tratto, c’era e poi non c’era più. Si compiva ciò che il signore aveva annunciato, che avrebbe inviato un vento talmente forte da non lasciare pietra su pietra né mattone su mattone. La distanza non consentiva a caino di rendersi conto della violenza del ciclone spirato dalla bocca del signore né del fragore dei muri che crollavano uno dopo l’altro, i pilastri, le arcate, le volte, i contrafforti, ragion per cui la torre pareva andar giù in silenzio, come un castello di carta, finché tutto finì in un’enorme nuvola di polvere che saliva al cielo e non lasciava vedere il sole. Molti anni dopo si dirà che vi era caduto un meteorite, un corpo celeste, uno dei tanti che vagano nello spazio, ma non è vero, fu la torre di babele, che l’orgoglio del signore non ci consentì di ultimare. La storia degli uomini è la storia dei loro fraintendimenti con dio, né lui capisce noi, né noi capiamo lui7.
L’antica Babel, superba ziqqurat quadrata, serviva da ancoraggio alla barca di Sin, dio della luna, ed era assimilabile alla montagna sacra che, nella sua sommità, apparteneva al cielo toccandolo mentre gli uomini possedevano solo la sua base. Nella confusione di Migdal tutto è caos ma manca il vociare chiassoso della torre di Bruegel, manca la disperazione folle di Saramago, manca la presunzione della competizione degli uomini con Dio. Tutto è caos silente, ossimoro che serve per indicare esattamente il pensiero di Magni connesso al plurale della storia ma direi di tutte le storie. In effetti tutte le opere di quest’artista sono desolatamente silenti e mai percepibili come azione futura, semmai come passato agito meditazione su questo, forse come futuro possibile e desolante. Gli stessi Corpopaesaggi si esprimono con uguali voci silenti delle Montagne mutate in Torri. Rimane da chiedersi se il ne del pittore è coerente per tutti i suoi cicli, se lo spazio e il tempo del suo immaginario persistono e perseguono la stessa ricerca, lo stesso disagio, lo stesso turbamento, le stesse sfumature di un pensiero antagonista, il suo, che si pone in polemica con la strafottenza e la crudele presunzione degli uomini e del mondo. La grande torre, la prima della serie, racconta la sua continua volontà del saper disegnare e raccontare, – il segno viene prima del dipingere, dichiara l’artista. Così dalla pittura incontrollata e informale delle ultime montagne Magni ritorna alla descrizione di una trasformata e nuova icona. Per poi ricominciare quel percorso di sottrazione del dato decorativo che lo fa ritornare al puro gesto grafico–cromatico. Migdal è il tutto, la storia e la sua memoria, il pensiero individuale e il suo vissuto, la singolarità dell’esperienza e il suo plurale.
È Babel ma è antica Roma, è la storia ma è attualità contemporanea, è la torre ma è montagna nella sua massima verticalità, è il manufatto dell’uomo ma è essenza di natura, è il caos ma è silenzio, è l’unificazione delle genti ma è divisione e incomprensione.
L’atto biblico di superbia è superato, in questo quadro, dall’assoluta mancanza di vita. Era, è o sarà, poco importa. La torre di Magni è più probabilmente il nostro day-after. Carica oltre ogni dire di memorie della nostra storia e delle nostre esistenze occupa con maestà il centro dello spazio secondo una precisa prospettiva rinascimentale. Carica di ogni richiamo alle architetture del passato, archi colonne grate, Colosseo, Torre di Pisa, prigione, fortezza chiusa e inespugnabile nella sommità come eliporto di Sin, colature impronte di blisters e di condoms come formelle in continua sovrapposizione di coni e di sedimentazioni. E qua e là tracce di colore, linea blu e linea verde, gialla, blister rosso sull’architettura monocroma un tempo policroma oggi fatiscente. Qui non si racconta l’istante che è già passato remoto, qui si racconta la condizione acquisita, a tal punto che il sovraccaricarsi delle decorazioni sono le uniche voci dell’esistere. Le voci silenti sono, quindi, la forza di coerenza che l’artista chiede alle sue emozioni, ai pensieri, ai ricordi, voci afone e lontane delle storie plurali, eco di siti remoti. Come dire che quei blisters segnano il passaggio dell’uomo, il suo intervento, la sua cura e la sua futilità, la sua vanità. La torre di Babele è la nostra metafora, c’era e poi non c’era più. E poi c’è quel fondo bianco di carte sovrapposte, incollate e strappate, dove unico e solitario testimone delle tragedie di un mondo in disfacimento è l’uomo/ marionetta posto a mezzo cielo. Fili appena ravvisabili lo mantengono e lo guida- no in uno spazio abbacinato di luce e lutti indicibili. È sezionato, manipolato, dice Magni, ciò che è stato l’uomo contemporaneo e che esce a pezzi dall’odierna apocalisse. È anche traccia di altre torri, quelle di New York, crollate con uomini e donne che si gettavano nel vuoto. Paradossalmente è, questa, opera di simbiosi e coesistenze tra le moderne torri gemelle e Babel, Stati Uniti e Iraq, New York e Babilonia. Storie molteplici. Distruzione su distruzione!
A seguire ancora un trittico con opere di minore formato. Bastioni di Orione, vicina nelle strutture grafiche e nelle cromie a Migdal, in più il fuoco, in più le carte bruciate. Android’s Dream, Extramondo, le altre due. Dal molto della struttura della prima al vuoto dell’ornamento delle seconde torri. Dai suoi chiaroscuri architettonico-decorativi e dai vivi contrasti di un fuoco che purificherà il mondo Magni passa all’essenziale. Quasi meccani, quasi metamorfizzati in ulteriori paesaggi mentali. Altre storie ma si sa le torri, nella teoria dello spazio-tempo e nelle culture, amano molto cambiare continuamente! Cambiano veste, si alleggeriscono, perdono i pezzi, cambiano colore, si muovono in deserti irrecuperabili o in territori della fantasia visionaria e allegorica. Il trittico mantiene la coerenza di pensiero e azione solo nei titoli, tutti assimilabili tra loro. Blade Runner è il filo conduttore naturalmente, il resto è lo svolgimento di un tema che il nostro arti- sta ha fatto suo in forme chiare e denunciate.
Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.
Così chiude il replicante Roy Batty. Così chiude l’androide Magni che dalle fiamme dei Bastioni di Orione – fiamme, giusto per inciso, che ben presto diventeranno incendi anarchici divoratori e purificatori autonomi, vivi di vita propria – passa ai meccanismi metallici e senza storia di Android’s Dream e Extramondo. Dal monocromo delle terre al monocromo dei blu e dei bianchi. Il racconto della storia si fa assolutezza e non-storia. L’Android’s Dream è la Vite senza fine di Brancusi, è tutte le forme in una sola, è la Torre di Tatlin, ferro vetro acciaio, è doppia elica e spirale. È il movimento verso la solitudine dell’astrazione. L’Extramondo è già il futuro, il compiuto del dopo-mondo, il bianco senza sfumature, la cecità e il bagliore lattiginoso di chi non vuole e non può e non potrà mai vedere le differenze delle singolarità. Eppure no, non è proprio così, non sempre! Magni dipinge gli incendi, lui stesso diventa incendiario anarchico di ne Ottocento, diventa picconatore, trasgredisce e costruisce e ricostruisce. L’incendiario è ispirato dall’ideologia dell’uomo nuovo, nell’iconografia anarchica equivale al picconatore, simbolo dell’azione rivoluzionaria, il gesto distruttore degli anarchici. Distruggere prima di ricostruire e rifiutare ogni conformismo, assimilabile all’impegno civile e politico, naturalmente, ma anche a quello artistico. L’incendio è distruzione, è purificazione e nascita.
L’artista, nella sua tendenza alla serialità, riprende i soggetti ultimi, torri e incendi, e li trasforma in oggetti plastici. La terracotta presta il fianco alla forza del tridimensionale e all’urgenza della manualità. Che in Magni è sempre stata tenacemente presente! Le modalità creative e la loro declinazione sono le stesse. Cambiando la materia, che si fa autonoma, cambia però l’approccio. Le torri/scultura (a tutto tondo e in bassorilievo), quelle smaltate e quelle raku, sembrano cedere lo spazio del caos alla pacificazione del suo creatore. Egli parla di cedi- menti strutturali, di placche per il restauro, quindi di quegli stessi blisters della pittura che sono cura e medicina illusoria e abbagliante come una droga. I colori, i metalli il platino l’oro il bianco assoluto, diventano connotazioni di una nuova e ulteriore fase. In parallelo agli incendi, come già detto distruttori e purificatori, Magni cerca però la speranza, forse illusione, in dimensioni vicine al positivo anche solo indistinto.
Il bianco, somma di tutti i colori, è pura astrazione, caos generalizzato al quale si finisce per abituarsi. I blisters sono la medicina, la cura non–cura, l’appiatti- mento, l’assuefazione, la norma ma l’anelito alle pluralità fa la differenza. Sempre più, infatti, il nostro artista cerca la purezza dopo aver dato fuoco al mondo. Lo spirituale della chiarezza cromatica verso la sommità di alcune torri si coniuga con dinamiche meditative orientali, come lo yoga, in nuovi simboli e in assenza di altri. Non più blisters ma il ore di loto, ore sacro per l’induismo e il buddhismo, essenza della vita umana che resta pura anche nel suo affondare le radici nel fango. Senza il fango il loto non esiste, senza il fango della vita Buddha non esiste. Non più incendi che corrodono le torri ma purezza del bianco e lucentezza dell’oro. Magni dichiara le sue strutture mentali, oro come sacro, sostanza degli dei, incorruttibile e immutabile. Ma ecco ancora un passaggio! Le Torri raku segnano ulteriori approfondimenti. Manca la levigatezza delle terrecotte smaltate, mancano i bianchi assoluti. Magni si confronta con la ne della civiltà e la sua distruzione, con i ruderi delle intelligenze che diventeranno sempre più antropomorfizzati.
Poi parallelamente arriva Trans. Altro ciclo, altre storie, altre forme, altri segni, altri colori, stesse tematiche e problematiche. È il momento della trasformazione. Trans-Tesla, Psichedelica, Kailash, Argento e Oro, Punta del mondo, Akroterion, Finis Terrae, Graal, Chantico. Qui la natura si riappropria, o è in divenire, delle architetture e queste rimangono solo come tracce del passaggio dell’uomo – l’androide Roy Batty. Rimangono i sentimenti, rimangono le suggestioni e la scena si vanifica maggiormente grazie al bianco e nero, suggestione forse del suo viaggio in Cina. Il ritorno al segno grafico di Mauro Magni, dopo l’ingordigia e l’indigestione dei colori del dopo-Rocca Romana e del dopo-Migdal, segna l’ulteriore soglia che lui da sempre cerca di superare ma è anche e ancòra il saper disegnare e saper raccontare. Magni chiede polemicamente a se stesso, da dove vengo? Dal disegno! E allora ecco i suoi nuovi sguardi in trasformazione. Le torri non sono più torri ma animali spiaggiati che lentamente verranno risucchiati dalla natura incombente. Resta una traccia del suo intervento precedente, la scritta Trans, furiosamente rossa, inoppugnabile e inattaccabile dalla storia e dal caos.
E poi la speranza e la rinascita! Reset al MAAM (Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz), ex fabbrica occupata di Roma, è la via d’uscita! La torre racconta il caos, è vero, ma anche la liberazione! Il gesto mantrico, scritto per acronimi, è una preghiera, atto di dolore e atto di speranza. Possibilità desiderio fiducia attesa.

 

1 M. Meyer, Piccola metafisica della differenza, Religione, arte e società, Genova, 2009, p. 80
2ivi,p.81
3 M. Fumaroli, “Siamo allegorie o algoritmi?”, in La Repubblica, 19 maggio 2011, pp. 64-65
4 Questa considerazione sulla donna e sulla natura è la rielaborazione di un‘intervista radiofonica di Edolo Masci per RadioTre Rai. Tale intervista è stata posta alla base dei testi presenti nel catalogo I giovani che amo, Festa per il compleanno del mio caro amico Edolo, Roma, 2010. In particolare il brano ricordato era collegato al quadro Magma di Mauro Magni, p. 46
5 Ass. Ex Lavanderia, P. Pancaldi, A. G. Benemia, Al Buio, Ex Lavanderia – Padiglione 31, Ex Manicomio di Roma Santa Maria della Pietà, Roma, 2012, p. 65. Nella confusione di Migdal, 2012 (tecnica mista su tela, cm 250×200) è stato esposto alla mostra suddetta allestita nell’ottobre 2012
6 Gen. 11, 1-9
7 J. Saramago, Caino, Milano, 2010, pp. 70-72