GIUSEPPE CANNILLA
PROJECTIONS ON CANVAS
“Projections on Canvas” vuole associati, nel titolo della mostra, due termini che alludono a qualcosa di antitetico. La tela, come pittura, la proiezione come rilievo, mappa o fotografia. Non c’è antinomia oggi tra pittura e fotografia, ma c’era una volta. Così come c’era tra Peinture e Tableau, dopo Cézanne, con i primi indizi di una “linea analitica della pittura”: vale a dire di una pittura che incominciava a riflettere sui suoi materiali piuttosto che rilevare il mondo esterno. La “proiezione” invece è il nostro grande passato, sono secoli di storia alla ricerca di un senso da dare al mondo, di definirlo come qualcosa di pensato, di organizzato: per fare ordine dove c’era disordine, sostenuti da un bisogno “classico” di delineare attraverso il mondo il nostro potere e la nostra centralità. Però è altrettanto chiaro che la via dell’arte analitica, lo spazio della tela con la sua corposità a due dimensioni, con il peso della materia tattile opposta al visivo, a rimarcare ancora un binomio (quello famoso di Wolflinn), imprevedibilmente ci trasporta anche dalla parte delle cose, degli oggetti che prendono forma e sostanza proprio quando la tela e la pittura cercano di imbrigliarli e di soggiogarli al dominio manipolatore e fluido dell’atto linguistico.
Un binomio, quello di tela e proiezione, di peinture e tableau, in cui il verso dei due termini può anche confondersi e mutarsi: anche la stessa postazione della peinture, oggi, può lasciare tutto lo spazio la tela, alla corposità dei colori, al senso, all’espressione, la dove cercava (a malincuore) di prendere atto della perdita di senso della realtà a favore del ‘linguaggio’. Decretando anche, di conseguenza, la fine della necessità storica della pittura.
Ma non voglio allontanarmi troppo da oggi, dal bisogno oggi di fare pittura. Mettendo subito in campo, però, la necessità di non confondere il bisogno di fare pittura con la nuova ‘moda’ della pittura, o con le ricorrenti e cicliche cadute e resurrezioni dei mezzi ‘convenzionali’ dell’arte. Non è questo il mio avviso il problema di oggi.
Direi invece che mi sembra interessante rimarcare il ‘peso’ materico della pittura, di cui parlavamo prima, nei termini di una realtà, di una traccia che potremmo definire ‘indicale’, se non ci foste già se la nota definizione di Pierce, Che possiamo, però, bonariamente forzare per indicare nel colore del quadro il trasporto fisico di una realtà che si va spegnendo, come il distacco di un affresco per la sua conservazione. E, e poi, questo peso ma dedico, anche come estroflessioni fisica del corpo del pittore e sua materializzazione e mineralizzazione, come un frottage di Ernst, come una foresta pietrificata. Una trasformazione il vocale che il soggetto subisce come le cose che stanno dall’altra parte, quelli che potevamo definire un tempo “oggetto della visione”, in termini solidamente fenomenologici, e che oggi sappiamo vivere di una loro aliena forza coesiva tutta interna, delle loro sintagmatiche relazioni al di là dello sguardo coercitivo, come obiettività del mondo e sua perdita… Ecco ribadirsi il rovesciamento del verso, del senso, dei due termini dell’antica antinomia. La materia che prende corpo e spessore come “oggetto”, questo strano oggetto un po’ alieno che il nostro mondo fatto di incastri e contrapposizioni. E, laddove prima incarnava il sistema di rappresentazione più veristico e tradizionale. Il “tableau” Che il moderno lega in favore della “peinture”. La storica rappresentazione di una realtà esterna la cui certezza ontologica a un certo punto crolla. Donde la critica di Duchamp alla pittura “retinica”, Che è poi una critica alle impressioni di Monet da cui parte la storia moderna della visione.
Ma questa inversione di significato di quei termini, e quella nuova idea della realtà in cui siamo dentro senza averlo ancora definita, e necessaria oggi provo perché Duchamp si era dovuto arrendere di fronte ai problemi insolubili nei suoi tentativi di dare un senso all’arte e al mondo aldilà della rappresentazione di una realtà ormai “vuota”: Duchamp Che sembrava il primo dei contemporanei e invece era l’ultimo dei moderni per i quali la realtà era ancora ‘quella’ E il senso doveva essere ancora quello, e doveva essere perdutamente implorato… Non te lo Gia forte del mondo esterno si celava come nostalgia tra le sfaccettature di una realtà fatta di segni, e il ready made dei suoi famosi sigari, una volta accesi, andava inesorabilmente in fumo. Quando Malevič precisava, “non rappresento nulla”, ma “rappresento il nulla”, già si era aperta l’aporia su cui poi l’arte concettuale si doveva allenare nel disperato tentativo di far germinare un “senso” tra le pieghe del linguaggio classificatorio, sull’impero dei segni.
In questi termini ben precisi possiamo parlare allora della mostra di Barone, Caflisch e Magni, come una serie di finestre sulle delle realtà in cui viviamo: ribaltandoci dentro di esse. Finestre in mappe che sembrano in tese a ordinare in inquadrature coesive qualcosa di esterno, come le “apparenti” cacofonie della città espansa, e le “apparenti” armonie della natura e della storia. Diciamo apparenti per quanto si osservava in precedenza, appunto: perché armonie e disarmonie sono termini passati, e ancora legati a una aspirazione coordinatrice, mentre gli scenari in cui viviamo oggi sono pervasi dalla stessa complessità e contraddizione, sono ugualmente “mineralizzati”, e la presunzione dei soggetti di fare chiarezza, o più limitatamente di vedere e classificare, lungo una linea che può andare dalla Grande cartografia di Mondrian su Manhattan alla Pop Art, o da Monet a Duchamp, È sostituita dalla coscienza non tanto di vedere, ma di essere dentro le immagini e di farne parte, come segni di quel grande alfabeto che è il reale.
Così il soggetto se non può vedere o ascoltare, può però più agevolmente parlare le “differenze”, come lo definiva Derrida, di questa realtà in un linguaggio condiviso, anche se è più spesso scomodo è dominato dalla standardizzazione Del mondo globalizzato. Non abbiamo forse più la possibilità di dire, ma quella di esternare, non attraverso la materia, ma come materia, come il colore che non diventa spazio massa spazio, come complessità mineralogica e iper-spaziale. Le finestre aperte sulla campagna, sulla metropoli, sul nostro io, si illuminano dello stesso vigore e della stessa debolezza, degli stessi colori squillanti, acidi e piatti.
Un binomio, quello di tela e proiezione, di peinture e tableau, in cui il verso dei due termini può anche confondersi e mutarsi: anche la stessa postazione della peinture, oggi, può lasciare tutto lo spazio la tela, alla corposità dei colori, al senso, all’espressione, la dove cercava (a malincuore) di prendere atto della perdita di senso della realtà a favore del ‘linguaggio’. Decretando anche, di conseguenza, la fine della necessità storica della pittura.
Ma non voglio allontanarmi troppo da oggi, dal bisogno oggi di fare pittura. Mettendo subito in campo, però, la necessità di non confondere il bisogno di fare pittura con la nuova ‘moda’ della pittura, o con le ricorrenti e cicliche cadute e resurrezioni dei mezzi ‘convenzionali’ dell’arte. Non è questo il mio avviso il problema di oggi.
Direi invece che mi sembra interessante rimarcare il ‘peso’ materico della pittura, di cui parlavamo prima, nei termini di una realtà, di una traccia che potremmo definire ‘indicale’, se non ci foste già se la nota definizione di Pierce, Che possiamo, però, bonariamente forzare per indicare nel colore del quadro il trasporto fisico di una realtà che si va spegnendo, come il distacco di un affresco per la sua conservazione. E, e poi, questo peso ma dedico, anche come estroflessioni fisica del corpo del pittore e sua materializzazione e mineralizzazione, come un frottage di Ernst, come una foresta pietrificata. Una trasformazione il vocale che il soggetto subisce come le cose che stanno dall’altra parte, quelli che potevamo definire un tempo “oggetto della visione”, in termini solidamente fenomenologici, e che oggi sappiamo vivere di una loro aliena forza coesiva tutta interna, delle loro sintagmatiche relazioni al di là dello sguardo coercitivo, come obiettività del mondo e sua perdita… Ecco ribadirsi il rovesciamento del verso, del senso, dei due termini dell’antica antinomia. La materia che prende corpo e spessore come “oggetto”, questo strano oggetto un po’ alieno che il nostro mondo fatto di incastri e contrapposizioni. E, laddove prima incarnava il sistema di rappresentazione più veristico e tradizionale. Il “tableau” Che il moderno lega in favore della “peinture”. La storica rappresentazione di una realtà esterna la cui certezza ontologica a un certo punto crolla. Donde la critica di Duchamp alla pittura “retinica”, Che è poi una critica alle impressioni di Monet da cui parte la storia moderna della visione.
Ma questa inversione di significato di quei termini, e quella nuova idea della realtà in cui siamo dentro senza averlo ancora definita, e necessaria oggi provo perché Duchamp si era dovuto arrendere di fronte ai problemi insolubili nei suoi tentativi di dare un senso all’arte e al mondo aldilà della rappresentazione di una realtà ormai “vuota”: Duchamp Che sembrava il primo dei contemporanei e invece era l’ultimo dei moderni per i quali la realtà era ancora ‘quella’ E il senso doveva essere ancora quello, e doveva essere perdutamente implorato… Non te lo Gia forte del mondo esterno si celava come nostalgia tra le sfaccettature di una realtà fatta di segni, e il ready made dei suoi famosi sigari, una volta accesi, andava inesorabilmente in fumo. Quando Malevič precisava, “non rappresento nulla”, ma “rappresento il nulla”, già si era aperta l’aporia su cui poi l’arte concettuale si doveva allenare nel disperato tentativo di far germinare un “senso” tra le pieghe del linguaggio classificatorio, sull’impero dei segni.
In questi termini ben precisi possiamo parlare allora della mostra di Barone, Caflisch e Magni, come una serie di finestre sulle delle realtà in cui viviamo: ribaltandoci dentro di esse. Finestre in mappe che sembrano in tese a ordinare in inquadrature coesive qualcosa di esterno, come le “apparenti” cacofonie della città espansa, e le “apparenti” armonie della natura e della storia. Diciamo apparenti per quanto si osservava in precedenza, appunto: perché armonie e disarmonie sono termini passati, e ancora legati a una aspirazione coordinatrice, mentre gli scenari in cui viviamo oggi sono pervasi dalla stessa complessità e contraddizione, sono ugualmente “mineralizzati”, e la presunzione dei soggetti di fare chiarezza, o più limitatamente di vedere e classificare, lungo una linea che può andare dalla Grande cartografia di Mondrian su Manhattan alla Pop Art, o da Monet a Duchamp, È sostituita dalla coscienza non tanto di vedere, ma di essere dentro le immagini e di farne parte, come segni di quel grande alfabeto che è il reale.
Così il soggetto se non può vedere o ascoltare, può però più agevolmente parlare le “differenze”, come lo definiva Derrida, di questa realtà in un linguaggio condiviso, anche se è più spesso scomodo è dominato dalla standardizzazione Del mondo globalizzato. Non abbiamo forse più la possibilità di dire, ma quella di esternare, non attraverso la materia, ma come materia, come il colore che non diventa spazio massa spazio, come complessità mineralogica e iper-spaziale. Le finestre aperte sulla campagna, sulla metropoli, sul nostro io, si illuminano dello stesso vigore e della stessa debolezza, degli stessi colori squillanti, acidi e piatti.